LA STORIA - toma di lanzo

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LA STORIA

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Dall’epoca romana al medioevo

Le Valli di Lanzo furono abitate fin dalla Preistoria, come testimoniano numerosi ritrovamenti di incisioni rupestri e di pietre lavorate.
Considerato poi che, per la loro conformazione geo-pedologica e per il clima, esse si prestano favorevolmente all’allevamento zootecnico e che l’industria casearia fu una delle prime attività umane, si può affermare chela Tomadi Lanzo ha sicuramente origini lontanissime nel tempo.
Le prime notizie certe sulla colonizzazione delle valli e sulla utilizzazione dei pascoli a fini zootecnici sono riferibili all’epoca imperiale romana.
Verso il 150 d.C. la “gens Vennonia”, potente famiglia romano torinese, inviava pastori, schiavi e coloni al Piano della Mussa, in Valle d’Ala a pascolare greggi ed a produrre burro e formaggi. Il nome di questa famiglia è poi rimasto all’alpe Rocca Venoni.
Nel Medioevo ebbero giurisdizione sulle Valli varie abbazie, in particolare quella di San Mauro di Pulcherada, il Vescovo di Torino e diversi feudatari che concedevano le terre in enfiteusi, contratto che prevedeva l’obbligo del miglioramento fondiario a singoli affittuari o a consorti.
Molto spesso, come risulta dai conti della castellania di Lanzo, il canone d’affitto era pagato in natura con prodotti zootecnici quali montoni, agnelli, mucche, formaggi.
Nel conto del 1306 sono citati “casei et seracij” cioè formaggio grasso e magro, pagati dai consorti delle alpi “de vercellina , de unglascha, de losa, de verneto”.
Nel 1307 i consorti della Losa, sita sul Piano della Mussa, davano annualmente al Conte di Savoia140 libbredi formaggio, in altri anni 600, 450,300 libbre.
La rendita degli alpi Vercellina e Unghiasse, sopra Groscavallo in Valle Grande, era invece di300 libbredi formaggio, quello di Vernetto ne dava 600.
Nel 1312 i consorti dell’alpe d’Usseglio dovevano pagare, quando vi si conducevano bestie provenienti dalla Lombardia che a quel tempo comprendeva anche gran parte della pianura piemontese, 8 soldi per ogni montone e80 libbredi formaggio all’anno.
Dal conto del 1328 risulta che per il diritto d’alpeggio di bestie straniere sui pascoli di Cantoira, Ala e Vall’Orsera (Lemie) si pagavano 1 montone, 1 agnello e 2 formaggi all’anno, che generalmente erano di8 libbrel’uno (circa3 kg. tenuto conto che a quell’epoca la libbra di Lanzo equivaleva a 367 gr.), ed inoltre 4 soldi per ogni montone e  2 soldi e 6 denari per ogni agnello monticante.
In questo stesso periodo i consorti di Ala pagavano per i diritti di pascolo 16 rubbi di cacio all’anno.
Nel 1337 per i diritti di pascolo di bestie straniere sull’”alpis clapeti”, cioè l’alpe Chiapè sopra Monastero di Lanzo, i consorti dovevano “una juncata et unus caseus ponderans septem lib.”; se le bestie straniere non venivano, la rendita era solo di un soldo di denari viennesi cursibili, che era il valore della sola giuncata.
Nel 1419 Gioanni de Gaschis, abate di San Mauro affittò per 9 anni a Gioanni Solerio de balmis “l’alpe posto sulle fini di Ala in Venonio, altrimenti detto Zamarella, per l’annuo canone di 24 rubbi di casei seracii, 25 libbre di butiro colato, 60 libbre di seraciorum, 8 libbre di pepe dovuta al Duca di Savoia”. I generi suddetti dovevano essere dal Solerio e dai suoi famigliari portati a Torino a casa dello stesso abate, il quale dava in cambio al Solerio grano, segale e fave per il valore di 8 grossi di moneta corrente.
Dagli esempi riportati si può dedurre che la produzione casearia era una delle principali fonti di reddito nell’ambito dell’economia locale.
Come tale, in certi periodi, necessitò di un particolare protezionismo.
Nel foglio 9 degli statuti di Lanzo, concessi da Amedeo VI di Savoia nel 1351, si parla infatti di una “cureya caseorum olim inceptam”, cioè di una tassa che un tempo era imposta sul commercio del formaggio e che era stata abolita per gli abitanti della Castellania di Lanzo, ma che era in vigore per i commercianti stranieri, e ciò al fine di tutelare il prodotto locale dalla concorrenza esterna.

La “Summa Lacticinurum” di Pantaleone da Confienza

Le prime informazioni sulla qualità dei formaggi prodotti nelle Valli di Lanzo si trovano nel libro “Summa lacticiniorum sive tractatus varii de butyro, de caseorum variarum gentium defferentia et facultate” scritto da Pantaleone da Confienza, illustre medico del Duca Ludovico di Savoia, e stampato a Torino nel 1457.
In esso erano descritti tutti i formaggi fabbricati nello stato sabaudo, tra i quali il “Vallis Lancii et circumstantium caseus”, cioè il formaggio della Valle di Lanzo e dintorni.
Secondo il famoso scienziato il formaggio di questa vallata “non é molto buono quando é fresco ma diventa eccellente quando é maturo, acquista infatti un sapore molto piccante. Viene preparato in grosse forme che le donne pongono di solito a maturare sulla paglia o sul fieno, cosicché spesso la crosta s’inspessisce, incorporando fili d’erba e di paglia. Quando le forme hanno perso l’umidità sovrabbondante, le donne della Valle ne ripuliscono la crosta e la ripongono quindi tra i chicchi di avena o di segale dove matura ed acquista il caratteristico sapore piccante, “incisivus et mordicativus”. Ottimo come companatico e per la preparazione di “turte”, é inoltre assai economico poichè, a causa del suo sapore forte, può essere consumato soltanto in piccola quantità” .

Gruvere e cravottini

Bisogna giungere alla metà del settecento per avere altre notizie sulla produzione e commercializzazione dei prodotti caseari nelle Valli di Lanzo.
Nelle “Memorie antiche di Lanzo, e Valli” (1749) Giovanni Tommaso PERIOLATTO di Lemie, parroco di Fiano, così scriveva: “(....) In Lanzo si fanno due fiere all’anno e tutti i martedì si fa un grosso mercato di granaglie, vitelli, vacche, butiro, formaggio, gruvere, merci ed ogni altra cosa”.
Altre interessanti annotazioni si trovano nel 1° vol. “Delle opere de’ Medici e de’ Cerusici che nacquero o fiorirono prima del secolo XVI negli Stati della Real Casa di Savoia - Monumenti” (1786) di Vincenzo da Malacarne il quale, dopo aver riassunto quanto già scritto da Pantaleone da Confienza a proposito del formaggio prodotto nelle Valli di Lanzo così commentava: “(...) Ai nostri giorni è molto più apprezzato il burro di queste Valli, che il cacio: quello trasportandosi anche in lontanissime provincie senza tanto facilmente invecchiare, ed irrancidire, come degli altri si osserva. Ne va ogni settimana una grande quantità per l’Italia, e fino a Roma. I formaggi, che vi si fanno al tempo nostro hanno le proprietà che leggiamo presso a Pantaleone; sono di forma tondi, molto spessi e larghi, ed i migliori sono quelli, che vi si nominano Ciavrottini, quasi caprettini, ossia fatti con il latte di capra”.

Origine del vocabolo Toma


Fino a questo punto le varie fonti citate parlano genericamente di “caseus” oppure di formaggio o cacio. Il termine “toma”, di origine antica ma incerta, era invece solo di uso popolare.
A proposito dell’etimologia del nome “toma” scrive il vocabolario Zingarelli: “Toma (voce di etimologia incerta). Nome di formaggio fresco, conosciuto come piemontese, che si ottiene dal latte di vacca, pecora o capra”.
Secondo il dizionario etimologico italiano il termine “toma” risalirebbe al XVII sec. ed avrebbe avuto come centro di diffusione Marsiglia.
L’etimo deriverebbe da un latino volgare “toma” che sembra risalire al greco “tomè” (taglio).
Dalla Provenza il termine si sarebbe poi diffuso in Francia (tomme de Savoje, ecc.) ed in Italia dove si trovano le voci dialettali “toma” (Lucca), “tuma” (Piemonte, Sicilia, Calabria), “tumin” (Piemonte), “tumazzu” (Sicilia), “tumazzulu” (Calabria).
Infine altri studiosi affermano che l’origine sarebbe da ricercare nel vocabolo piemontese “tuma” che significa “caduta” ed in questo caso starebbe ad indicare precipitazione subita dalla caseina nel latte per azione del caglio.
Sicuramente il termine “toma” era già utilizzato nel Settecento anche nelle Valli di Lanzo. Lo testimoniano certi tipi di testamento in uso in quel secolo in cui il testatore fissava a favore della vedova, oltre all’usufrutto delle proprietà immobiliari, una annua pensione, a carico degli eredi, consistente soprattutto in generi alimentari.
Nel suo testamento del 12 giugno del 1717 Giovanni Pietro Riva Rosso di Viù stabiliva, a favore della moglie Maddalena Chiantor, la seguente pensione: “(...) Emine quindaci tra segla, et orzo, Rubbi due, Tomme, Rubbo uno butiro, mezo Rubbo sale livre cinque oglio di noce”.
Mezzo secolo più tardi, il 22 ottobre 1763, Giuseppe Riva Rosso fissava, per la moglie Giovanna Maria Rossotto, questa pensione: “(...) Emine dodici segla pura, monda, e secca, un emina formento di buona qualità, un emina Riso, un emina meliga, emine sei Castagne verdi, un rubbo butiro, Rubbi due tome, ord.rie di casa, mezzo Rubbo oglio di noce, libre otto sale, ...due brente vino d’ordinaria e buona qualità ...”
Due rubbi corrispondevano a circa 18,5 kg.
La toma era anche citata tra i prodotti forniti dagli esercenti di Lanzo alle truppe austriache che avevano occupato le valli negli anni 1799 - 1800.
In una dichiarazione, indirizzata all’Amministrazione comunale e volta ad ottenere il risarcimento del danno subito in considerazione del fatto che varie derrate erano state cedute ai soldati a prezzi ridotti rispetto a quelli correnti, in forza di una particolare disposizione di legge, si trova anche la seguente denuncia: “(...) io Anna Maria ved. Bertolone avendo somministrato alle truppe imperiali butirro, toma, riso e farine al prezzo della metà circa meno del corrente in commercio ed a quel prezzo che mi veniva loro genio pagato”.

Toma, Fontine, e le prime villeggiature nelle Valli di Lanzo

A partire dalla seconda metà del Settecento le Valli di Lanzo iniziarono a diventare il centro d’interesse di vari studiosi attratti soprattutto dai fenomeni naturali ivi presenti. Gli scritti, che spesso seguivano a questi viaggi esplorativi, contribuirono a far conoscere ad un pubblico relativamente vasto le attrattive delle Valli.
Inoltre presso le nobili famiglie torinesi lavoravano, a quel tempo, molti servitori (cuochi, brentatori, balie, portantini, domestici, cocchieri, ecc.) provenienti dalle Valli di Lanzo i quali pubblicizzavano, se così si può affermare, i loro paesi d’origine presso i padroni. Tutto ciò favorì, verso la fine del ‘700, un primo afflusso di villeggianti che andò sempre più incrementandosi nel secolo successivo, tanto che l’agricoltura ed il turismo divennero, fin da allora, le principali fonti di reddito per i valligiani.
Insieme ai primi villeggianti altri studiosi e ricercatori s’interessarono delle valli, questa volta riguardo a storia, arte, folklore, economia e diedero alle stampe nuove opere a favore di quanti volevano conoscere e frequentare le valli.
In diversi di questi studi vi sono osservazioni, descrizioni, indagini relative all’allevamento zootecnico, alle produzioni casearie ed alla loro commercializzazione.
Nel 1790 Amedeo Ferrero Ponziglione scriveva: “(...) Lanzo è per così dire la capitale di queste valli. Vi si tengono ogni settimana due mercati: i montanari vi portano il loro burro, il loro formaggio”.
Nel 1801 il Degregori, oltre a segnalare le produzioni casearie, forniva alcuni consigli per il loro miglioramento : “(...) Si fanno parecchi tipi di formaggi, e si ha del buon burro, prodotti che potrebbero aumentare con l’istituzione dei casoni, che sono in uso nel Vercellese (Casoni sono le latterie alle quali i proprietari d’un paese portano il loro latte per fare il burro in comune)”.
Nel 1823 apparve una delle opere più importanti di tutta la bibliografia di tutte le Valli di Lanzo: le “Lettres sur les Vallées de Lanzo”.
Ne era autore Luigi Francesetti conte di Mezzenile, consigliere comunale e pro sindaco di Torino, vice - presidente e poi presidente della Società Agraria (poi Accademia di Agricoltura), proprietario di cascine in pianura e di vaste estensioni di terreni a Mezzenile, autore di scritti di soggetto agricolo.
Negli alpeggi di Mezzenile il Francesetti produceva fontine, come si apprende da una lettera scrittagli il 21 marzo 1849, dal figlio Cesare: “(...) La primavera è indiavolata come l’autunno scorso. Siamo ormai senza fieno e l’erba sulle alpi non può crescere per causa del vento. Non si è ancora incominciato a far fontine, forse farò incominciare giovedì”.
Dal che si può ovviamente dedurre che la fontina non era una produzione esclusiva della Valle d’Aosta.
Nelle “Lettres” il Francesetti faceva un’ampia descrizione della gestione dei prati e dei pascoli, della vita dei pastori all’alpeggio, delle stalle, delle attrezzature casearie impiegate. A tale proposito il Francesetti scriveva: “(...) E’ impossibile farsi un’idea della pulizia con la quale sono tenute le larghe bacinelle di rame stagnato dove si depone il latte e le caldaie e gli utensili di ogni specie che servono a fare il formaggio e a battere il burro. Li si lava all’acqua bollente più volte al giorno, e più volte al giorno anche quelli che mungono le vacche, e ne manipolano il latte, si lavano essi stessi le mani e le braccia”.
Nel 1867 apparve il “Saggio di corografia statistica e storica delle Valli di Lanzo” di Luigi Clavarino, opera anch’essa fondamentale nella bibliografia delle Valli per il grandissimo numero di informazioni che fornisce su svariati argomenti, tra i quali hanno notevole importanza quelli riguardanti le attività economiche.
A proposito dell’industria casearia il Clavarino era abbastanza critico nei confronti della situazione che si era venuta a creare. Infatti con lo sviluppo del turismo nelle valli e con il miglioramento della rete stradale tra i vari comuni ed il capoluogo, Lanzo, si era notevolmente elevata la richiesta di burro e formaggi, per far fronte alla quale si era, in parte, rinunciato alla qualità del prodotto. Inoltre, per aumentare la resa in burro, nella Valle Grande si producevano sempre meno fontine (a più alto tenore in grasso) a favore dei caci freschi o tome (più magri).
Scriveva dunque il Clavarino: “(...) Anche il modo di lavorare i latticini lascia alcun che a desiderare, avvegnanchè l’avidità di guadagno spinga i conduttori dei pascoli ad adulterarne i frutti per aumentarne il prodotto, ma con iscapito grave sulla bontà del medesimo. Ond’è che le fontine della Valle Grande non possono più sostenere la concorrenza con quelle della Valle d’Aosta, perchè oltre a questo principale prodotto, per cui le erbe dei pascoli alpini  sono confacentissime, si vuol ricavare collo stesso latte, butirro e giuncata. La stessa avidità di guadagno ha invaso pure i conduttori dei pascoli ed i proprietari tutti di bestiame, che fanno solamente caci e butirro, e prova ne sia la differenza sul prezzo di L. 2 in meno al miriagramma che si verifica sul mercato di Lanzo, fra il butirro di queste Valli e quello dei contigui paesi della Valle del Tesso. Da accurate informazioni si può asserire con molto fondamento che in queste Valli esistono non meno di 4500 vacche e 1000 giovenche. Nell’estiva stagione buona parte di queste vanno a pascolare nei pascoli alpini, ove in quelli della Valle Grande si fanno caci e fontine, ed in quelli di Valle d’Ala e di Viù, butirro e caci freschi (tome). Ogni vacca nei tre mesi di pascolo alpino da un frutto di miriagrammi 4,50 di fontine, chilogrammi 4 di butirro, e chilogrammi 6 di giuncata; oppure miriagr. 3 di cacio fresco, miriagr. 3 di butirro; e negli altri nove mesi che passa alle Mutande e nei paesi delle Valli, miriagr. 5,50 di butirro e miriagr. 8,25 di cacio fresco.
Nell’inverno le bovine vivono nelle stalle presso i proprietari, tranne una minima parte che va a svernare nelle pianure del Piemonte ove se ne smerciano i latticini.

Si ritenga peraltro che a produrre i frutti sopra indicati concorrono parte delle pecore e capre, di cui parleremo più innanzi, e che circa 4.000 miriagr. di butirro e 18.000 miriagrammi di cacio fresco comune vengono consumati sul luogo. Il rimanente viene esportato e costituisce la principale risorsa del paese”.
Scriveva inoltre il Clavarino: “(...) come in tutti i paesi montuosi del Piemonte: il Biellese, la Valsesia, la Valle d’Aosta, la Valle dell’Orco, esiste un ramo di commercio o d’industria tutto particolare; così in queste valli si lavorano i latticini e se ne fa commercio. Ma dopo il 1859 i latticini lombardi avendo invaso i mercati di Torino, ed essendo essi incontestabilmente migliori, il commercio del butirro incomincia a languire, quello dei caci a soffrirne non poco (...). Il commercio di esportazione di butirro, di fontine e di caci freschi che si fa in Lanzo è però ancora abbastanza considerevole. Di solo butirro se ne vendono in media 590 miriagrammi per settimana, che al prezzo di L. 15, dà la somma di L. 444.630. Di fontina nei quattro mesi estivi si esporta dalle valli una quantità non minore di 7.312 miriagr., che a L. 10 rende L. 73.120. Di caci freschi in tutto l’anno se ne smerciano 19.125 miriagr., con un prodotto di L. 114.750 in ragione di L. 6 cadauno. Vuolsi inoltre tener conto della giuncata e del caprino di cui se ne vende ogni anno per L. 25.000 all’incirca. I latticini dunque esportati ascendono al valore di L. 657.500.
Si osservi però che al mercato di Lanzo concorrono i latticini della vicina Valle del Tesso e dei mandamenti di Fiano e Corio, e che lasciano a quei negozianti il profitto della rivendita, di cui si deve tener conto nella valutazione dello speciale commercio di Lanzo.
Il Clavarino stimava in 24.093 le pecore ed i montoni che pascolavano nelle Valli di Lanzo nella stagione estiva, e in 24.033 le capre, a proposito delle quali annotava: “(...) Delle capre che salgono ai pascoli alpini, talune concorrono colle bovine a dare i frutti in cacio e butirro, altre poi in qualche montagna della Valle Grande, sono unicamente destinate a dare un frutto eccellente e molto stimato chiamato caprino. Un migliaio circa sono destinate a questo prodotto, e nei tre mesi ne danno 1.000 miriagr., oltre 600 miriagrammi di giuncata. Il caprino si vende L. 10,50 ogni miriagramma e la giuncata L. 5,50; talchè il valore di questo prodotto si può ritenere di L. 16.000 all’anno”.
Intanto, grazie soprattutto al turismo che aveva fatto conoscere ai torinesi le Valli di Lanzo ed i suoi prodotti, si era ormai andata affermando una vera e propria “denominazione d’origine” riguardantela Toma.
In quella che fu la prima guida turistica delle Valli di Lanzo, Carlo Ratti annotava (1883): “(...) si ricava un burro eccellente e i formaggi conosciuti sotto i nomi di Fontina e Toma di Lanzo, che insieme ai caprini sono la principale fonte di esportazione delle Valli”.
Qualche anno  più tardi (1887) Leopoldo Usseglio confermava le affermazioni del precedente Autore: “( ...) Sono, anche a’ giorni nostri, in possesso di bella fama il burro e la toma di Lanzo ... si fanno formaggi buoni massime in Margone (Valle di Viù, N.d.A.)”.
Se gli scritti del Ratti e dell’Usseglio ebbero diffusione strettamente locale, la consacrazione definitiva della “Toma di Lanzo” venne da una pubblicazione a larga diffusione nazionale, l’Annuario Generale 1912 del Touring Club Italiano che alla voce “Lanzo Torinese”, così sottolineava “specialità gastronomiche: Tuma di Lanzo (formaggio)”.
Nel 1917, ad ulteriore conferma della notorietà della toma, apparve un libro ben noto a tutti gli studiosi delle tradizioni piemontesi “Voci e cose del vecchio Piemonte” in cui l’autore Alberto Viriglio citava, tra i prodotti agricoli ed enogastronomici più famosi della regione, le “tome di Lanzo, del Talucco, di Ceresole Reale”.

Primi studi su produzione e commercializzazione della Toma

Tra il 1909 ed il 1910 venne pubblicata a puntate sul periodico “L’Economia Rurale” lo studio “I pascoli alpini del Circondario di Torino - Relazione della Commissione d’Inchiesta nominata dal Comizio - Comizio Agrario del circondario di Torino (Valli di Lanzo). Inchiesta economico agraria sui paesi montuosi del Circondario di Torino”.
In questo lavoro gli Autori (Bonacini, Chiej Gamacchio, Tommasina, Voglino) fornivano una cospicua e precisa serie di dati su pascoli, alpeggi, carichi di bestiame, capi allevati, fabbricati rurali, attrezzature, forme di proprietà relativamente ai vari comuni delle valli.
Vi erano inoltre molte notizie sulle produzioni casearie.
In tutti i comuni delle valli si produceva soprattutto burro e, come prodotto secondario,la Tomadi Lanzo con rese assai differenti in rapporto alla qualità dei pascoli. Gli Autori fornivano queste rese settimanali per capo vaccino:

 

La produzione di fontina si era molto ridotta rispetto a quanto riferito dal Clavarino quarant’anni prima. Infatti la zona di produzione si era ristretta alla Valle di Gura, nel comune di Forno Alpi Graie, oggi comune di Groscavallo, ad un paio di alpi nel comune di Bonzo, oggi Groscavallo, e ad un altro alpe a Groscavallo. Le rese per capo vaccino e per settimana erano, a Bonzo, Kg 0.5 di burro più Kg 9.5-10 di fontina, mentre a Groscavallo la produzione di fontina scendeva a soli4 Kgper capo.
Il latte di pecore e capre era normalmente mescolato a quello vaccino.
Come importanti prodotti secondari vi erano i caprini, la ricotta ed il seirass.
Prezzi (L./Kg) rilevati nel 1907:

 

Varie erano le modalità di commercializzazione.
A Viù alla domenica ed al lunedì, giorno di mercato, convenivano i pastori coi loro prodotti che vendevano agli incettatori provenienti da Torino.
Da Lemie portavano i prodotti ai negozianti del paese oppure scendevano al mercato di Viù per vendere agli incettatori. Inoltre una buona parte del prodotto era acquistata dai conducenti delle vetture pubbliche che, al mercoledì ed al sabato, lo vendevano al minuto a Torino.
Ad Ala il burro era venduto settimanalmente sul locale mercato mentre la toma era acquistata, a fine stagione, da incettatori provenienti dal Biellese.
Da Groscavallo i prodotti erano portati sul mercato di Lanzo dal conducente di vetture che faceva anche da intermediario nelle vendite.
Alcuni anni più tardi apparve, sugli Annali dell’Accademia di agricoltura di Torino, lo studio di F. Confienza “I margari della provincia di Torino”.
ll Confienza analizzava le metodologie di produzione di burro, ricotta dolce e salata, tomini e di due tipi  di formaggio: il nostrale, a pasta dura, crudo, ad alto contenuto in grasso, e la toma di Lanzo, a proposito della quale scriveva: “(...) Formaggio di Lanzo. La toma di Lanzo è  un formaggio magro a pasta dura, cruda; essa viene fabbricata sia con un miscuglio di latte bovino ed ovino, sia con solo latte bovino, scremati per affioramento.
La composizione varia del formaggio di Lanzo dipende oltreché dalle percentuali di latte ovino e bovino mescolate, anche dalla durata della scrematura, la quale talora è di 12 oppure 24 od anche 36 ore.
Il metodo seguito per la preparazione del formaggio di Lanzo differisce da quello descritto pel formaggio nostrale in ciò: che pel primo la durata della pressatura è minore di quella praticata per formaggio nostrale, giacchè trattandosi di un formaggio magro, la separazione dello siero dalla pasta avviene più facilmente e rapidamente.
Il formaggio di Lanzo viene preparato in forme del peso vario da Kg 6-7 a Kg 20-25 l’uno.
Da 100 litri di latte magro si ottengono normalmente  da 7 a 9 Kg di formaggio di Lanzo, il quale viene venduto da L. 0.90 a L. 1 il Kg sui mercati già accennati per la vendita del formaggio nostrale (Biella, Castellamonte, Cuorgnè, Ivrea, Torino, Brandizzo, Ciriè, Lanzo, Rivarolo, Settimo T.se, S.Giorgio, N.d.A.)”.
Il Confienza fu in pratica il primo Autore a fornire una descrizione della metodologia di produzione della Toma, seguito alcuni anni dopo da Maria Tonelli-Rondelli ne “Le abitazioni temporanee della Valle di Ala (Piemonte) - parte II - Usi e costumi pastorali” apparso sul periodico “L’Universo” n. 9/1929 che dava notizie su edifici rurali, attrezzature e appunto modalità di fabbricazione della Toma.

Legislazione riguardante la Toma

La produzione della toma di Lanzo e la sua commercializzazione sui mercati locali si protrasse normalmente fino al 1939 quando, con l’entrata in vigore della legge 2 febbraio 1939, n° 396 “Conversione in legge, con modificazioni, del Regio Decreto Legge 17 maggio 1938, n° 1177, recante disposizioni  integrative della disciplina della produzione e della vendita dei formaggi”, molti formaggi italiani, tra cui la toma, vennero praticamente posti fuori commercio. Tale legge infatti, oltre a prescrivere il contenuto minimo in materia grassa, riferito alla sostanza secca, dei vari formaggi, stabiliva alla nota B della tabella A: “Nelle zone montane, che saranno determinate con decreto del ministero per l’agricoltura e per le foreste, di concerto col ministro per le corporazioni, è consentita la produzione, a scopo di vendita, per il consumo strettamente locale, di formaggi duri con contenuto di materia grassa non inferiore al 18 per cento. Con lo stesso decreto saranno stabilite le caratteristiche di tali formaggi e le altre modalità atte a limitarne il consumo nei riguardi delle popolazioni delle zone montane dove tali formaggi si producono o tradizionalmente si consumano”.
In mancanza del relativo decreto ministeriale, la produzione e vendita della toma, come pure di altri formaggi simili era dunque da considerasi illegale con evidente, grave danno per le popolazioni montane. Finalmente nel 1950, grazie anche all’interessamento del Senatore Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica, fu promulgato un D.M. che fissò le caratteristiche del formaggio Toma ed elencò i comuni della Provincia di Torino in cui ne era consentita la produzione e la vendita.
Infine c’è da ricordare che con Decreto Ministeriale del 24 novembre 1964 furono fissate le caratteristiche, per altro identiche a quelle stabilite perla Provinciadi Torino del formaggio toma prodotto in 168 comuni della Provincia di Vercelli (attualmente Province di Vercelli e Biella).

Studi e progetti sulla Toma di Lanzo

Il periodo del dopoguerra fu caratterizzato da un imponente abbandono della montagna piemontese e da una accentuata emigrazione verso i paesi della pianura e Torino alla ricerca di redditi più remunerativi e sicuri, rispetto a quelli forniti dalle risorse locali, e di migliori servizi sociali.
Di queste circostanze ebbero a soffrire anche l’agricoltura, la zootecnia e le produzioni casearie.
Ne “I pascoli nei comuni montani del Piemonte” (1958) gli Autori Francardi, Terreno e Pastorini, dopo aver espresso apprezzamento per alcuni formaggi, tra cui la Toma di Lanzo, commentavano abbastanza severamente la situazione della produzione e commercializzazione dei formaggi di montagna: “(...) I tipi di formaggio più apprezzati sono: la Fontina delle Valli Formazza e di Antigorio, il Reblochon del Moncenisio, la Toma grassa della Valle di Lanzo, le Robiole e le Tome delle Valli del Cuneese e del Canavesano.
E poi ancora il formaggio tipo Bra, la Fontina di Frabosa e le svariate forme di Toma; questi formaggi però hanno scarse qualità commerciali e sono destinati per lo più al consumo locale, o vengono acquistati da grossisti, poi rimpastati nei caseifici industriali della pianura e trasformati in formaggini (“Formaggino Mio”, Bebè”, ecc.) che vengono consumati pure dagli stessi montanari.
Anche i turisti che frequentano le vallate consumano formaggi commercialmente più noti e poco apprezzano, nè richiedono, i formaggi fabbricati localmente”.
Per superare questa grave situazione la “Relazione illustrativa per la domanda di classifica delle Valli di Lanzo in comprensorio di bonifica montana” redatto (1964) da Pintor, Martinengo, Bertoglio dell’Assessorato alla Montagna della Provincia di Torino, proponeva la realizzazione di tre latterie sociali ed individuava in Chialamberto, Viù e Coassolo le sedi più appropriate.
Chialamberto avrebbe dovuto assorbire la produzione lattiera della Val Grande  e della Val d’Ala, Viù  quella dell’omonima valle. Scopo di queste latterie sarebbe stata la produzione di latte pastorizzato e sterilizzato durante i periodi di villeggiature e di formaggi nel resto dell’anno. Coassolo, invece, avrebbe dovuto raccogliere la produzione della Valle del Tesso per diventare la centrale per la fornitura del latte a Lanzo ed ai paesi vicini.
Il progetto rimase allo stadio di proposta.
Di questo periodo erano anche gl’importanti studi sul formaggio toma di Giovanni Delforno dell’Istituto Sperimentale di Caseificio di Lodi.
Riguardavano rispettivamente le zone di produzione, la tecnologia di fabbricazione (1965) e la composizione chimica della toma (1967) che apparvero sulla rivista “L’industria del Latte”. Successivi studi furono riportati nell’articolo “Il formaggio Toma” sulla rivista “Il mondo del latte” (1975) e soprattutto nel volume “I formaggi tipici del Piemonte e della Valle d’Aosta” (1981) che riassumeva il tutto.
In esso, a proposito della toma di Lanzo, il Delforno scriveva: “La toma di Lanzo, che prende il nome dal comune omonimo situato nella provincia di Torino, è indubbiamente una delle migliori tra quelle appartenenti a questo tipico formaggio piemontese. La sua produzione si attua specialmente in piccoli caseifici, per lo più a conduzione familiare, od anche durante il periodo dell’alpeggio estivo; i maggiori centri di fabbricazione si trovano, oltre che a Lanzo Torinese, nella Valle Grande (Cantoira, Chialamberto, Groscavallo, ecc.), nella Valle di Ala (Ala di Stura, Balme, Ceres, ecc.), nella Valle di Viù (Lemie, Usseglio, Viù, ecc.) ed in alcune altre Valli limitrofe.
Essa ha una forma cilindrica, con faccie piane ed uno scalzo diritto o leggermente convesso; il suo peso è molto variabile, essendo compreso tra i 3 e i 20 kg. A 1-2 mesi di stagionatura si presenta esteriormente con una sottile crosta giallastra, mentre all’interno la pasta è morbida, di colore paglierino e con piccoli occhi, talvolta appena visibili e non molto diffusi; il sapore è gradevole, aromatico e con qualche tendenza al piccante. Con l’invecchiamento (“Tuma veja”) la pasta diventa semi dura e di colore giallo oro, mentre la crosta si fa più scura, assume uno spessore maggiore e risulta più o meno verrucata; il sapore è piuttosto forte e piccante.
La Toma di Lanzo è un formaggio da tavola, ad acidità di fermentazione, grasso o semi grasso ed a maturazione media, che viene prodotto con latte di vacca intero o parzialmente scremato per affioramento, talora addizionato di piccoli quantitativi di latte di pecora o di capra; la sua tecnica di fabbricazione è pressochè analoga a quella della Toma di Susa. Questo formaggio è assai apprezzato nelle sue zone tipiche di produzione, dove molto richiesto particolarmente dai turisti e dai villeggianti, che vi dimorano specie in estate; quello grasso, inoltre, è il componente essenziale della cosiddetta polenta “cuncia”, che è un celebre piatto locale. La toma di Lanzo, oltre che nelle zone di produzione, è anche molto commerciata nei mercati di Torino e di altre città del Piemonte (Alessandria, Asti, Chivasso, Ivrea, Santhià, Vercelli, ecc.) e nella Valle d’Aosta”.

Toma di Lanzo: la migliore

A proposito delle zone di produzione della toma in Piemonte e Valle d’Aosta, il Delforno cita tra le principali: Biellese e Valle Viona (BI), Boves (CN), Val Sesia (VC), Gressoneiy (AO), Sestriere, Valle Susa e Lanzo (TO).
Ed il fatto che quella di Lanzo sia una delle tome migliori e più conosciute è confermato dalla sua frequentissima citazione su libri, giornali ed opuscoli. Ecco alcuni esempi.
Ne “I segreti della cucina ligure e piemontese” (1969) di M. Avigdor sono citate le tome di Lanzo e Ceresole (TO), Sordevolo (BI) e Cuneo.
Nell’inserto “L’aristocrazia dei formaggi” alla rivista “Epoca” (1972), il noto scrittore di enograstronomia Luigi VERONELLI ricordava, tra le tome a base di latte di vacca o misto, quelle di Sestriere e Lanzo (TO), Valle Viona (BI), Gressoney e Brusson (AO). Della Toma di Lanzo scriveva inoltre: “Prodotta nella Val Grande e nelle Valli di Stura e di Viù, ha le migliori provenienze nei comuni di Chialamberto (Frazione Breno) e di Groscavallo. A base di latte di vacca, ha forma di disco piuttosto spesso, peso molto variabile dai 3 ai 20 chili, pasta semi-dura di colore bianco paglierino, odore caratteristico, bene espresso, e sapore accentuato con tendenza al piccante. E’ formaggio da tavola”.
In un articolo intitolato “I formaggi delle Alpi” apparso sulla “Rivista della Montagna” (1977), M. Di Maio affermava “(...) Per esperienza personale, e senz’altro facendo torto a molte, potremmo citare tra le migliori tome di Sampeyre e di Bellino in Val Varaita, della Valle Stura (CN), ...della Val Formazza (VB), ... nell’alta Val Tanaro (CN), quelle cosiddette di Lanzo, della Valle Sacra (TO)”.
Nell’opuscolo “Sapore di latte - I formaggi del Piemonte” edito dall’Assessorato Agricoltura e Foreste della Regione Piemonte (1987) segnalava “(...) le varietà più largamente conosciute:
Toma del Biellese, Toma della Val di Susa, Toma della Valle Viona, Toma di Boves, Toma di Lanzo”.
In “Mangiare e bere in Piemonte e Valle d’Aosta” (1987) il giornalista de “La Stampa” Sandro Doglio citava alcune tome della Valle d’Aosta, mentre per il Piemonte scriveva: “(...) si preparano altri ottimi formaggi (oltre a quelli DOC, N.d.A.): ... una infinità di Tome, di cui la più conosciuta è quella “di Lanzo”.
Come si può notare nei vari esempi forniti, la “Toma di Lanzo” è l’unica sempre citata dai diversi Autori, mentre sull’eccellenza e notorietà delle tome fabbricate in altre località non vi è uniformità di giudizio.
Del 1980 era un importante studio “Alpicoltura in Piemonte” di Pastorini, Salsotto e Bignani per l’Unione della CCIAA del Piemonte che faceva il punto su estensione, proprietà, conduzione e produzioni dei pascoli e degli alpeggi piemontesi.
Dalla grandissima massa di dati statistici si evince che nelle Valli di Lanzo, durante il periodo dell’alpeggio (media 116 gg) venivano prodotti q 15.395 di latte di cui q 15.110 erano trasformati in prodotti caseari e cioè burro q 458, formaggio q 1.240, con rese medie (per100 ldi latte ) di Kg 2,97 di burro e Kg 8,03 di formaggio.
Confrontando questi dati con quelli del Clavarino (1867) si nota come sia fortemente cresciuta (dal 60 al 73% del totale dei prodotti caseari) la produzione di formaggio e quindi proporzionalmente calata quella di burro (dal 40 al 27%), sempre più svantaggiato dai dettami delle moderne diete nei confronti  dell’olio di oliva o di semi e della margarina.
Erano comunque produzioni assai ridotte rispetto al passato che tuttavia,  nonostante la notorietà della Toma di Lanzo, trovano sovente difficoltà di collocamento fuori dal ristretto ambito locale, a causa dell’inesistenza di forme promozionali opportunamente studiate, indirizzate e continuative nel tempo.
In questo ambito merita invece di essere ricordata un’iniziativa che si tenne a metà degli anni ‘80. Si trattava dell’”Itinerario gastronomico della “Toma ‘d Lans”.
Fu indetto dalla Comunità Montana Valli di Lanzo  in collaborazione con il Comitato per il parco del Ponte del Diavolo e con il patrocinio dell’Assessorato alla Montagna della Provincia di Torino. Aveva la finalità primaria di valorizzare e rilanciare la Toma di Lanzo, uno dei prodotti più tipici e tradizionali delle Valli e ciò allo scopo di pervenire al conseguimento del decreto ministeriale per il riconoscimento della denominazione di origine controllata.
All’itinerario aderirono 16 ristoranti nel 1984, 32 nel 1985 e 28 nel 1986, che proponevano ai clienti un menù comprendente piatti tipici locali ... e piatti a base di toma.
L’Itinerario ebbe un buon successo di pubblico tuttavia fu presto interrotto e negli anni seguenti proseguì con iniziative private di singoli ristoratori.
Le iniziative ufficiali volte all’ottenimento della denominazione d’origine riprendono all’inizio di questi anno ‘90.
Da parte dell’Asprolat Piemonte vi è stata nel giugno 1991 la presentazione al Ministero dell’Agricoltura e Foreste della domanda per il riconoscimento della denominazione per la Toma del Piemonte.
A seguito della riunione del 27 luglio 1992 il Comitato Nazionale per la tutela delle denominazioni di Origine tipiche dei formaggi ha espresso parere favorevole pubblicando lo schema disciplinare di produzione della “Toma piemontese”; ottenuta con latte intero; e della “Toma piemontese semigrasso”, ottenuta con latte parzialmente scremato.
La zona di produzione per entrambe le tipologie comprende le intere provincie di Biella, Cuneo, Novara, Torino e Vercelli.
Per quanto riguarda invece le Valli di Lanzo, che ovviamente, rientrando nella zona di produzione, potrebbero già usufruire della denominazione di Toma piemontese, sono state portate avanti altre iniziative particolari.
Nel 1991 è stato costituito un consorzio di produttori per portare avanti la domanda di denominazione.
Nel 1992 è stato presentato un nuovo marchio per tutti i prodotti tipici delle Valli di Lanzo e preparato un marchio specifico per la toma consistente in una placca di resina riportante la scritta ed il numero del produttore, che servirà per le prime prove di marchiatura.
Contemporaneamente continuano gli studi per la preparazione dei documenti richiesti dal regolamento CEE n° 2081 del 14 luglio 1992 per l’ottenimento della denominazione d’origine protetta (DOP) e dell’indicazione geografica protetta (IGP) che sostituiranno a livello europeo, a partire dal luglio 1993 le denominazioni d’origine controllata (DOC) precedentemente concesse a livello nazionale.

 
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